Lo stereotipo della donna velata tra storia, fedi e letteratura

Milko Sammartano


Collana: Tesi CSSR
Numero: 396

Tesi

Istituzione: FBK - ISR Corso Superiore di Scienze Religiose
(Facoltà Teologica del Triveneto)
Tipologia: Tesi di Laurea Magistrale in Scienze Religiose
Anno Accademico: 2017 - 2018
Relatore: prof.ssa Lucia Rodler
Collocazione: i-14 020 0396
Consultazione: non autorizzata
Pagine: 117

Abstract

Dietro alle sue morbide pieghe, il velo nasconde una storia indubbiamente millenaria che ha avuto inizio con le civiltà mesopotamiche e che si tramanda nei secoli attraverso le tradizioni e le religioni. La sua storia si è sviluppata secondo diverse direttrici adattandosi spesso alle consuetudini dei popoli con cui è venuta in contatto.
Dall’analisi dei significati del velo nelle tradizioni ebraica, cristiana e islamica è emerso che esso non soltanto appare nel testo sacro relativo a ognuna di queste religioni, ma si può considerare un “elemento unificatore” tra esse.
Le pagine della mia dissertazione hanno messo in luce diverse analogie sull’uso del termine “velo” nella Bibbia ebraica, in quella cristiana e nel Corano.
Il percorso seguito ci permette, inoltre, di rispondere a un interrogativo generale che si ritrova alla base dei dibattiti sull’uso e il significato del velo nel mondo islamico: si tratta, come espresso da alcuni, di una pratica prescritta nel Corano oppure una consuetudine ereditata dalla tradizione alla quale si sono affiancati i dettami religiosi?
Dalla ricerca da me compiuta, infatti, è scaturito quanto sia superficiale l’equazione «donna velata = donna musulmana (sottomessa)», che frequentemente emerge nelle discussioni pubbliche.
Queste riflessioni conclusive vorrebbero invitare a una maggiore cautela e consapevolezza nell’affrontare la questione del velo, sottolineando come punto di partenza la necessaria distinzione tra il suo significato religioso e il retroterra socio-culturale in cui esso è inserito e vissuto.
Ciò, a mio parere, risulta emergere in particolar modo dalle storie di donne iraniane famose (in particolare Aza Nafisi e Marjane Satrapi), che ho preso in considerazione nel corso della mia dissertazione. Queste, infatti, in quanto storie rielaborate sotto forma di arte e/o scrittura, non devono essere considerate, in quanto tali, come prodotti giudicabili dall’etichetta che li rimanda ad un’unica categoria: “donne iraniane intellettuali”, con il rischio di banalizzare le loro opere, trasformandole in mere “testimonianze di un’etnia”.
Non è questo l’intento. Piuttosto, c’è da considerare che la produzione artistico- letteraria di queste donne ha come base comune un’esperienza individuale e collettiva insieme: la Rivoluzione Iraniana.

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